#BegbieOnTour ep. 19 - Urlare "Tzigani!" allo stadio del Partizan Belgrado

#BegbieOnTour ep. 19 – Urlare “Tzigani!” allo stadio del Partizan Belgrado

Non avrei mai pensato di ritrovarmi a rimpiangere così tanto l’estate in cui sono stato a Belgrado, in un taxi che, in piena riserva di benzina, veniva spento in discesa per risparmiare carburante e riuscire a portarmi a destinazione. O forse sì.

Ascolto consigliato:

È l’estate del 2019, non sto parlando di secoli fa, ma ci sono state già abbastanza quarantene e lockdown da renderla vagamente nostalgica. Il mio itinerario, organizzato rigorosamente last second, prevede qualche giorno in Montenegro, a Podgorica, e un gran finale a Belgrado in solitaria.

Podgorica, Montenegro

180 mila abitanti circa, evidentemente tutti scappati al mare nel periodo di Ferragosto. Il primo impatto è quello dell’esodo balneare della provincia italiana, con una città semi deserta, nonostante il mio hotel fosse situato in una delle vie con maggior vita notturna tra pub e locali ogni due metri. Ammetto che verso sera il silenzio mi è sembrato quasi inquietante, lascio i bagagli e percorro la strada dell’albergo che, tra l’altro, ovviamente non per caso, porta verso lo stadio Pod Goricom.
Più mi avvicino, più aumentano le urla e i boati, è il 14 agosto ed è di scena il Budućnost, la squadra di casa, contro il Kom, una partita che nel mio itinerario avevo tralasciato temendo di non arrivare mai in tempo.
Incastonati allo stadio (l’impianto utilizzato dalla nazionale montenegrina) ci sono negozi di ogni tipo, una sorta di centro commerciale in stile modello inglese miseramente fallito e decadente, con dentisti, veterinari, una pizzeria, ma di biglietterie aperte durante la partita nemmeno l’ombra.

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Nella zona dello stadio da cui proviene più rumore, e anche qualche esplosione di petardi, trovo poliziotti in tenuta antisommossa, a cui chiedo dove posso trovare un biglietto.
Sorridono perplessi.
Mi aprono il cancello, mi perquisiscono e mi fanno entrare. Sto per salire verso la curva quando mi chiedono la mia provenienza, rispondo che sono italiano.
“NO!” – mi fermano – mimando poi uno dei gesti più universali: il pollice che taglia la gola.
Ottimo – penso – e non sono ancora neanche a Belgrado.
Uno di loro mi “scorta” in un’altra tribuna semivuota, ma sono dentro. Senza un biglietto, alla vigilia di Ferragosto, a vedere una partita di campionato montenegrino. Potrebbe andare peggio.

La qualità calcistica è veramente infima, ma il tifo: bè, quello è da grande palcoscenico. I “Barbari”, come sono chiamati i tifosi del Budućnost, sono numerosi, attrezzati e incazzati.

 

Anche le strade adiacenti allo stadio sono piene di scritte e slogan dedicati al Budućnost, tra casermoni e coree di stampo sovietico che, a tarda sera, regalano un’atmosfera post apocalittica sinceramente impagabile.

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Ancora di più con la giusta colonna sonora nelle cuffie.
Sopra un murales del Budućnost, infatti, si trova anche un ritratto di Milan Mladenović, indimenticato frontman di una della band più celebri e influenti dell’ex Jugoslavia, gli Ekatarina Velika. Per capire quanto fosse trasversalmente apprezzato il suo impegno sociale, oltre che la sua musica new wave anni ’80, basta dire che Mladenović ha strade a lui intitolate in Montenegro, Serbia e Croazia.

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Belgrado, Serbia

Ed eccomi qua. Dopo aver attraversato un pollaio ed essermi imbattuto in uno dei bar più belli e decadenti di Podgorica per raggiungere la stazione dei bus, e dopo un volo operato da una compagnia low cost rumena con un residuato bellico che mi è sembrato interminabile, sono sul famoso taxi in riserva.

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Il miglior bar del Montenegro

Alla guida c’è un uomo in canotta che sembra la risposta serba a Luis Aragonés, impegnato a spegnere il suo Mercedes in stile anonima sequestri a ogni fottuto semaforo rosso.
Mentre facciamo la discesa a motore spento provo a stemperare il silenzio che si è creato con una delle più classiche domande da fare se ti trovi a Belgrado, anche se la risposta era abbastanza intuibile.
“Bè… quindi Stella Rossa o Partizan?”, chiedo.
“Partizan – risponde prontamente e in maniera scontata, vedendo il personaggio – ma la Stella Rossa è nettamente più forte”.
Quando ormai manca poco all’hotel, e ci arriviamo senza scendere a spingere l’auto, gli confido che il giorno dopo andrò a vedere il Partizan contro il Rad. Mi aspettavo la prendesse bene, mi guarda dallo specchietto e mi dice:
“Bene! Ti do un consiglio, vai allo stadio e urla forte ‘Tzigani!’ (che sarebbe “zingari”, cioè come vengono definiti in modo dispregiativo i tifosi della Stella Rossa) ti farai un po’ di amici”resta serio per un istante, poi scoppia a ridere e mi lascia davanti all’albergo. Sì, buona giornata anche a te.

Belgrado, almeno nella zona del centro, di fatto non è molto diversa dalla tipica capitale europea, ma basta infilarsi in un paio di vie secondarie per trovare scritte di Stella Rossa e Partizan e la periferia. Ci sono infatti interi viali con i murales del GTR (Grobarski Trash Romantizam) e Grupa Jna, recenti gruppi di tifosi del Partizan che hanno tappezzato la città di ritratti di celebri tifosi bianconeri o di personalità affini. Da Joe Strummer a Morrissey, passando per George Orwell e il comico serbo Mija Aleksić e tanti altri. Grupa Jna ha anche un’omonima band punk rock, che ha realizzato l’inno del Partizan suonato e cantato allo stadio, oltre a diverse cover in serbo che meritano un ascolto, su tutte “Humska Ulica”, cover di “Bro Hymn” dei Pennywise.

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Stadion Partizana e Marakana

Il giorno prima della partita passo nella zona dei due stadi: quello del Partizan e il Marakana, distanti solo poche centinaia di metri.
L’impatto con entrambi non può lasciare indifferenti.

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Marakana

Se dal lato Stella Rossa la sensazione è di respirare la storia e un blasone di epoche passate, in una struttura epica ma riconducibile a uno standard da competizione europea, avvicinarsi allo stadio del Partizan tra pilastri arrugginiti e il graffito che occupa tutta una curva dello stadio con scritto “Grobari to smo mi” (“Noi siamo i Grobari”, cioè i becchini, come si chiamano i tifosi più caldi del Partizan), ti porta direttamente in atmosfere tetre da guerriglia e da Est Europa.

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Stadio Partizan – “Grobari to smo mi”

Un lato dello stadio del Partizan è aperto e mi provo a intrufolare, dopo che al Marakana non ho avuto fortuna e sono stato braccato in due secondi dalla sicurezza. Qui è gestito tutto in maniera più blanda, all’interno c’è un baretto improvvisato dei Grobari, c’è poca gente e passo inosservato.
Entro anche in uno degli spogliatoi dello stadio e, dando un’occhiata, capisco di più, al di là delle temibile tifoseria in tribuna, perché gran parte delle squadre blasonate che passano di qui fanno molta fatica. È uno stanzino spartano, con scritte sui muri e panche che non possono non farti tornare in mente i primi anni alla scuola calcio. Mi immagino cosa può passare nella testa di un professionista seduto qui o in un altro degli spogliatoi dello stadio, che sente le urla dei tifosi e i boati dei petardi. Se non hai carattere, seduto su questa panca torni indietro nel tempo a quando venivi bullizzato nei pulcini da quelli più grandi, figurati giocare una partita da avversario a Belgrado.

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Cammino sulla pista d’atletica a bordo campo, godendomi la scena, quando due ragazzi del Partizan mi vengono incontro con toni non esattamente entusiastici sulla mia presenza. Ma me la gioco bene proclamandomi tifoso italiano del Partizan. E dopo una decina di minuti di conversazione, mentre mi riaccompagnano sereni all’uscita, mi lasciano con quello che probabilmente è un cavallo di battaglia dei tifosi bianconeri. “Tutta Europa ricorda la Coppa Campioni della Stella Rossa – raccontano – ma noi abbiamo vinto campionato e coppa per quattro anni consecutivi (stagioni 2007-2011, ndr)”. Per la mia incolumità non me la sento di fargli notare il prestigio della Champions rispetto a un double nel campionato serbo, va bene così.

Partizan-Rad

Il giorno dopo, il 18 agosto 2019, passo dal campo alla tribuna per vedere il Partizan contro il Rad, un piccolo club dei sobborghi di Belgrado. Sulla carta è una partita tranquilla, ma solo due anni prima ha riempito le pagine dei media internazionali per i cori razzisti dei tifosi del Rad contro l’attaccante del Partizan Everton Luiz, uscito dal campo in lacrime.

Mentre salgo le gradinate c’è una cosa che mi balza all’occhio rispetto al solito, quanto sono strette le gradinate e le vie di fuga. La prima cosa che mi viene in mente è che, in caso di scontri o cariche, qui difficilmente si riesce a evitare di finire nei guai.
Non è comunque questo il caso, perché la partita scorre serena tra lo spettacolo sugli spalti dei Grobari, assiepati nella loro classica curva e, con una frangia di dissidenti, in una parte di tribuna lunga.
Cantano tutto il tempo e sono veramente in tanti, nonostante sia una delle prime giornate del campionato e il caldo d’agosto, e i loro boati fanno tremare tutto lo stadio. Per non parlare di torce, fumogeni e petardi. Uno spettacolo difficile da vedere in altre parti del mondo.

 

Cosa? Se ho urlato “Tzigani”? Naturalmente no. Ma il mattino dopo, mentre mi aggiravo dentro al Blok 23, uno dei quartieri popolari della periferia di Belgrado, rappresentato da una serie infinita di identici casermoni sovietici in uno scenario alienante, un ragazzo viene a indagare su di me e dice una cosa che mi spiazza ancora di più.
“Ma tu, da esterno, che idea ti sei fatto della guerra in ex Jugoslavia? Chi ha ragione?”.

Voglio la domanda riserva, cazzo.

 

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